Ci sono artisti che osservano la natura da lontano, come spettatori incantati. E poi ci sono quelli che la vivono sulla pelle, che ne sentono il respiro e le ferite. Ingrid Weyland appartiene a questa seconda categoria. Argentina, cresciuta in una famiglia di scultori e architetti, ha trasformato la sua formazione in grafica e il suo amore per i paesaggi remoti in un linguaggio fotografico unico: un dialogo visivo tra bellezza e ferita, tra contemplazione e intervento.

Ci siamo fatti raccontare da lei il cuore pulsante del suo lavoro, che attraversa terre lontane e carte spiegazzate, fino ad arrivare a una riflessione intima e potente sulla vulnerabilità del nostro pianeta. “Sono cresciuta circondata dall’arte – ci racconta Ingrid – i miei nonni erano uno scultore e un architetto, e ho poi studiato graphic design. La fotografia è arrivata piano, come un modo per preservare la memoria e le emozioni, e col tempo si è trasformata in qualcosa di più profondo”.
La svolta arriva durante un viaggio in Islanda, dove osserva con dolore l’impatto visibile dell’uomo sul paesaggio. “In quel momento ho capito che mostrare solo la bellezza non era più sufficiente: volevo raccontare anche la sua vulnerabilità”.
Da questa consapevolezza nasce Topographies of Fragility, una serie che intreccia fotografia e gesti scultorei, per riflettere sulle fragilità ambientali.
In questa lunga e profonda intervista abbiamo parlato quindi con l’artista del suo percorso, del modo in cui le sue immagini si trasformano in oggetti emotivi, e di come il gesto fotografico possa diventare una forma di cura.
Il tuo lavoro gioca spesso con la manipolazione dell’immagine e la trasformazione del paesaggio. Come nasce questa scelta, e cosa desideri comunicare attraverso queste opere?
L’idea è nata quasi per caso. Stavo riordinando alcune stampe a casa e mi sono resa conto che dovevo lasciar andare alcune prove fallite. Accartocciare una delle mie fotografie di paesaggio, stranamente, mi è sembrato un sacrificio. Guardando la carta spiegazzata, ho avuto l’impressione che fosse una metafora silenziosa del modo in cui trattiamo la natura: qualcosa da usare e poi scartare.
Quel momento mi è rimasto impresso, e la parola carta ha continuato a risuonarmi in mente. Il gesto di piegare, schiacciare, distorcere è diventato centrale nel mio processo. Ho iniziato a sperimentare con diversi tipi di carta, osservando come resistevano o cedevano. Stratificando queste immagini alterate sopra i paesaggi originali e fotografandole nuovamente, ho creato una tensione tra bellezza intatta e danno persistente.
Più che documentare crisi ambientali specifiche, il mio obiettivo è evocare una riflessione. Voglio che chi guarda si fermi a pensare alla fragilità del mondo naturale e al nostro posto al suo interno.
Nella serie Topographies of Fragility, il tema della vulnerabilità del paesaggio è centrale. Come è nato questo progetto, e come si è evoluto nel tempo?
Il progetto è nato da un momento di tensione e riflessione. Dopo un viaggio in Islanda nel 2019, sono rimasta colpita da quanto il paesaggio fosse cambiato rispetto alla mia prima visita – non tanto per il turismo in sé, ma per il modo in cui alcuni visitatori ignoravano i confini e mancavano di rispetto all’ambiente.
Quell’esperienza mi ha fatto capire che presentare solo immagini belle non bastava più. Volevo parlare di ciò che rischiamo di perdere.
Da allora, la serie è cresciuta fino a diventare un’esplorazione più ampia dell’intervento e della materialità. Ho iniziato a testare diversi tipi di carta, osservando come reagivano alla pressione. Ogni immagine è scelta con cura, alterata e stratificata, mai in modo casuale. Col tempo ho iniziato a incorporare altri gesti come bruciare, strappare o cucire, tutti modi per riflettere sulle cicatrici che lasciamo.
Quello che era iniziato come una metafora visiva è diventato uno spazio di sperimentazione, estetica ed emotiva, dove continuo a riflettere sulla fragilità e sull’impronta della presenza umana.
Molti tuoi lavori riflettono una tensione tra bellezza e distruzione. Secondo te, qual è il ruolo dell’arte e della fotografia nella sensibilizzazione sulle tematiche ambientali?
Credo che l’arte abbia il potere di raggiungere le persone a livello emotivo, al di là dei fatti, dei dati o dei titoli dei giornali. Siamo spesso esposti a crisi ambientali attraverso immagini brutali e sature, e sebbene ciò possa essere efficace, può anche renderci insensibili.
Con il mio lavoro, invece, cerco di creare uno spazio per la riflessione silenziosa, un momento in cui chi guarda si fermi, osservi due volte, e magari provi qualcosa di più personale.
Combinando la bellezza con la rottura, provo a evocare un senso di perdita e vulnerabilità. La tensione dell’immagine diventa uno specchio: non solo della fragilità della natura, ma anche della nostra.
Penso che la fotografia possa piantare un seme, qualcosa di piccolo che resta dentro e forse cambia il modo in cui guardiamo il mondo.
L’arte, da sola, non può fermare il cambiamento climatico, ma può spingerci a prendercene cura. E prendersi cura è il primo passo verso il cambiamento.




Le tue fotografie sembrano muoversi tra documentazione e interpretazione poetica. Come trovi l’equilibrio tra questi due aspetti nel tuo lavoro?
Per me, quell’equilibrio è molto intuitivo. Comincio fotografando paesaggi reali, luoghi che ho visitato, con cui ho stabilito un legame profondo. In questo senso, c’è un fondamento nell’osservazione, ma non mi considero una documentarista del mondo. Quello che mi interessa non è solo ciò che ho visto, ma ciò che ho sentito.
Dopo ogni viaggio, la trasformazione avviene in studio, dove l’immagine diventa un oggetto materiale, che può essere piegato, rimodellato o segnato. È lì che si sviluppa il livello poetico.
Attraverso questi gesti, la fotografia passa dalla rappresentazione alla metafora. Il paesaggio intatto e quello alterato coesistono nella stessa immagine. In quella coesistenza trovo l’equilibrio tra realtà ed emozione, tra rappresentazione ed espressione. Il paesaggio diventa non solo un documento di ciò che è stato visto, ma anche un riflesso di ciò che è stato sentito, trasformato dalla memoria, dal gesto e dall’atto silenzioso del guardare dentro.
Ci puoi raccontare qualcosa in più sulle tecniche che usi? Come scegli il punto di vista e la composizione delle tue immagini?
Quando sovrappongo la stampa stropicciata a quella originale e le fotografo insieme, la composizione diventa più scultorea. Posiziono lo strato accartocciato con cura: non per coprire completamente l’originale, ma per creare un dialogo tra ciò che resta intatto e ciò che è stato alterato.
La posizione, le pieghe, le ombre che proiettano: tutto questo modella l’immagine finale.
La mia formazione in graphic design gioca un ruolo silenzioso ma essenziale in tutto il processo. Mi aiuta a trovare l’equilibrio visivo, a strutturare l’inquadratura e a guidare l’occhio verso l’effetto che desidero ottenere, sia a livello formale che emotivo.
Nei tuoi progetti, la natura è spesso trasformata o rimodellata in nuove forme. Come reagisce il pubblico a questa visione insolita?
Sono rimasta profondamente colpita dalla generosità delle reazioni del pubblico. I paesaggi trasformati suscitano spesso curiosità, e chi guarda cerca di capire cosa sta vedendo. Quel momento di incertezza apre uno spazio per la riflessione.
Alcuni mi hanno detto che le immagini li hanno fatti sentire turbati ma anche commossi, come se qualcosa di bello fosse stato alterato ma non del tutto perso. Quella tensione emotiva è intenzionale.
Alcune risposte sono state particolarmente significative, come quella di una professoressa che ha chiesto ai suoi studenti di accartocciare un foglio e cercare poi di raddrizzarlo, per discutere insieme delle tracce indelebili e del nostro rapporto con la natura.
Non avrei mai immaginato che il lavoro potesse risuonare così ampiamente, ma questi momenti di connessione sono diventati una delle parti più gratificanti di questo percorso.
Il tuo lavoro sembra fortemente legato all’identità argentina e ai paesaggi del tuo Paese. In che modo le tue radici culturali influenzano la tua pratica artistica?
Anche quando le mie immagini non sono legate esplicitamente a un luogo preciso, l’Argentina è sempre presente nel mio lavoro. Sono nata e vivo a Buenos Aires, ma mi sento spesso attratta dalle regioni meno abitate del Paese, come la Patagonia, la Foresta Atlantica e le Ande.
Questi luoghi sono per me santuari emotivi, dove il silenzio e la vastità creano spazio per la riflessione e il legame con la terra.
Per anni ho sentito il bisogno di viaggiare lontano per trovare ispirazione. Ma col tempo ho iniziato a guardare dentro di me, a riconoscere la ricchezza e la fragilità del mio stesso territorio.
L’Argentina possiede una straordinaria varietà di ecosistemi e biodiversità, ma anche grande vulnerabilità, con regioni come la Patagonia sempre più minacciate da incendi e cambiamenti climatici.
Questi paesaggi hanno formato il mio modo di vedere. Mi hanno insegnato a rallentare, ad osservare meglio, e a sentire che la bellezza spesso racchiude in sé la fragilità. Questa comprensione è al cuore del mio lavoro.
Dietro ogni immagine di Ingrid c’è una presenza profonda, un ascolto silenzioso del paesaggio. Il suo processo creativo è tanto visivo quanto sensoriale, ma in questa sua esplorazione e continua evoluzione, abbiamo volute anche scoprire con lei come viene percepita nel mondo della fotografia.
Il tuo lavoro ha ricevuto riconoscimenti in festival ed esposizioni internazionali: cosa significa per te questa attenzione, e come ha influenzato la tua evoluzione artistica?
È stato sorprendente e molto significativo. Quando ho iniziato a lavorare su Topographies of Fragility, stavo esplorando qualcosa di molto personale: una riflessione silenziosa sulla natura, sulla perdita e sull’intervento.
Non avrei mai immaginato che queste immagini avrebbero viaggiato così lontano o trovato riscontro in pubblici così diversi.
Il riconoscimento ha portato visibilità, certo, ma più di tutto ha aperto conversazioni. Ascoltare curatori, artisti, studenti, spettatori che si sono connessi con il lavoro mi ha aiutata a comprenderne meglio la portata – e la responsabilità.
Mi ha incoraggiata a continuare a sperimentare, a fidarmi del mio intuito, e a restare fedele all’onestà emotiva che ha dato forma al progetto fin dall’inizio.
Sono grata per il viaggio che questo lavoro mi ha fatto intraprendere. Ogni mostra, ogni messaggio, ogni dialogo diventa parte di questa evoluzione.





Quando sei sul campo a fotografare, c’è un momento o un rituale che ti aiuta a entrare nel “flusso creativo”?
Sì, anche se più che un rituale è una transizione silenziosa. Quando arrivo in un nuovo posto, non prendo subito la macchina fotografica. Cammino, osservo, ascolto, lascio che l’atmosfera si depositi in me.
Il silenzio è essenziale. Cerco di visitare regioni poco popolate e di evitare di viaggiare in gruppo, così posso radicarmi pienamente nella quiete della natura.
Cerco di essere presente con tutti i sensi: sentire il vento, notare i profumi, le texture, la qualità della luce. C’è un momento in cui tutto rallenta: il respiro, i pensieri, e comincio a sentirmi in sintonia con il luogo. È allora che inizio a vedere. Spesso perdo la cognizione del tempo, assorbita dai piccoli dettagli. Quello stato di presenza è ciò che chiamo flusso creativo.
Tra gli artisti che l’hanno ispirata, Ingrid cita Caspar David Friedrich, Olafur Eliasson, Edward Burtynsky. Le loro opere, dice, le ricordano che l’arte può essere “visivamente potente e socialmente rilevante”.
E a chi vuole seguire una strada simile, consiglia: “Partite da ciò che vi muove davvero. Non seguite solo ciò che è urgente fuori, ma ciò che risuona dentro. Datevi il permesso di sperimentare, ascoltate il paesaggio e il vostro intuito. Anche un piccolo gesto può generare cambiamento”.

Oggi Ingrid continua a interrogare i confini dell’immagine, esplorando nuovi gesti come il cucito, la combustione, la stratificazione. La sua recente esperienza in Antartide ha aperto nuove traiettorie creative: paesaggi estremi, sospesi tra fine e inizio, che incarnano la stessa urgenza silenziosa delle sue opere.
Ingrid Weyland ci ricorda che ogni paesaggio è anche una pelle, una superficie viva che può essere ferita, ma anche toccata con cura. Il suo sguardo è un invito a vedere – davvero – ciò che ci circonda.
Per scoprire di più sul suo lavoro, vi invitiamo a visitare il suo sito: www.ingridweyland.com
Mariantonia Cambareri